Il 25 aprile 2022 ci ha lasciato Roberto Masotti. Con lui viene a mancare primaditutto un amico, un amico di ciascuno di noi ma anche del Centro d’Arte, le cui rassegne aveva iniziato a seguire più di quarant’anni fa, certo più per interesse personale e solo secondariamente per la sua professione di fotografo di spettacolo. Stiamo leggendo in questi giorni molte belle e sentite parole dalle tantissime persone che sono entrate in contatto con questa personalità così intelligente, colta, generosa, e tutte queste manifestazioni di affetto si rivelano anche, e non è una sorpresa, altrettanti contributi alla conoscenza di una figura che non è per niente riducibile al ruolo di ‘occhio’ per quanto sensibile e acuto, sull’esperienza musicale.
Dalle sue precoci esplorazioni della free music europea al suo lavoro di fotografo del Teatro alla Scala, dal suo legame con l’etichetta ECM alle opere realizzate a quattro mani con John Cage, al suo lavoro di curatore e performer, Roberto Masotti è stato, attraverso la fotografia ma non solo, anche un organizzatore di cultura di primissima importanza. In modo informale e understated, ma non per questo meno efficace e influente. Nella casa-studio di Milano dove viveva insieme a Silvia Lelli si potevano incontrare John Cage, Franco Battiato, Derek Bailey, Arvo Pärt, Demetrio Stratos, o anche Carla Fracci, perché, certo, lo scopo evidente era quello del servizio fotografico, ma in sostanza perché Roberto aveva un interesse attivo e non effimero verso tutte le musiche che rappresentavano la novità, senza pregiudizio di genere o di stile. E sapeva entrare in un rapporto confidente, di familiarità, con i tanti musicisti che seguiva e amava.
Uno dei suoi cicli di ritratti più famosi si intitola You tourned the tables on me, e lo si può considerare il più completo e creativo repertorio della musica di ricerca che si faceva negli anni a cavallo tra i 70 e gli 80. Attorno a un tavolino di ferro verniciato e variamente scrostato, recuperato chissà dove, ritrovi Meredith Monk, Michel Portal, Morton Feldman, Brian Eno, Philip Glass, Evan Parker, Frederic Rzewski, Joan LaBarbara, Luciano Berio, e ancora Cage, Stratos e altri cento. Non era una collezione a caso, bensì il frutto di un’intuizione allora condivisa da pochi che sapevano vedere lontano. Non esisteva ancora un festival, una rassegna che mettesse in contatto linguaggi e pratiche che cominciavano appena a dialogare tra loro, ma non ancora con il pubblico. E quando il Centro d’Arte organizzò nel 1979 un pionieristico festival ‘trasversale’, come si diceva, dove accanto a Morton Feldman c’erano Roscoe Mitchell, Dieter Schnebel e George Lewis, fu un fatto naturale includere la mostra di Roberto come manifesto visivo di quello che credevamo dovesse essere una musica autenticamente contemporanea, plurale, radicale, e bella. Anzi, forse quell’intuizione di Roberto aveva contribuito a renderci consapevoli di quello che stavamo facendo e, negli anni a seguire, avremmo continuato a fare.