La seconda edizione di musica oggi, che venne organizzata nella primavera del 1979 dal Centro d’Arte insieme agli Amici della Musica, non fu soltanto un bel momento di collaborazione tra le due associazioni e, in definitiva, tra un gruppo di amici ma, in retrospettiva, una delle più originali e varie rassegne di musica contemporanea che si potessero tentare con i mezzi che si avevano a disposizione e – lascio da parte la nostalgia e soprattutto la modestia – un modello ancora per oggi: vi convivevano la retrospettiva sul pianoforte preparato di Cage e la musica organistica di Messiaen insieme all’improvvisazione libera del post-free jazz europeo e americano (il trio Evan Parker, Peter Kowald, Paul Lytton, il duo Roscoe Mitchell-Radu Malfatti, il quartetto di George Lewis con Richard Teitelbaum, Douglas Ewart e Anthony Davis), ma soprattutto i compositori in veste di esecutori di opere proprie e altrui: Dieter Schnebel con il suo gruppo di München; Vinko Globokar, Carlos Alsina con il New Phonic Art (con Michel Portal e Jean-Pierre Drouet), e “Morton Feldman and Soloists” – così si chiamava il trio. Il 12 maggio di quell’anno, Feldman al pianoforte, Eberhard Blum ai flauti e Jan Williams al glockenspiel eseguirono per due volte una composizione molto recente, Why Patterns?, della durata di tre quarti d’ora circa, e durante l’intervallo Feldman sollecitò domande dal pubblico.
Qualche tempo dopo si tornò a parlare di un nuovo concerto a Padova. Feldman aveva ricevuto una commissione dall’Orchestra della Radio della Svizzera Italiana. La prima di The Turfan Fragments venne eseguita il 26 marzo 1981: andai a Lugano e passai una bellissima giornata con Feldman. Ci si mise d’accordo per la stagione successiva, e cominciarono le trattative sul programma e sui solisti: si parlò di una piccola formazione che, oltre a Feldman stesso, avrebbe forse compreso il violinista Paul Zukofsky, il violoncellista Fred Sherry, oppure l’oboista Han de Vries. Qualche mese dopo, come si legge nella lettera qui riprodotta, Feldman propose Bruno Canino e Rocco Filippini per presentare in prima europea una nuova composizione, Untitled Composition for Cello and Piano, ovvero Patterns in a Chromatic Field (nonostante le apparenze, il primo dovrebbe essere il titolo definitivo, tuttavia nel catalogo di Feldman la titolazione di questo pezzo è oscillante. Nella lettera figura il primo titolo, e in un’altra – credo precedente – Feldman impiegava il secondo: ma quest’altra lettera non si trova più, la memoria è fallibile e, nell’impossibilità di confrontare le date, la questione rimane aperta).
Caro Veniero Rizzardi,
prima che cominciamo, ho qualche ripensamento.Aki deve venire dal Giappone a New York per le prove – Paul Z. dopo avergli appena parlato vuole più lira ecc. Anche se possiamo andare avanti, e so che ce la possiamo fare – pensiamo a un’alternativa. Cosa c’è che non va in un gruppo italiano? Quel superbo violoncellista (era venuto a Lugano per il mio pezzo) di Milano, di quel trio famoso (il violinista è appena morto) in cui c’è il pianista Bruno -?- che conosco e che ha suonato già la mia musica. Va bene, non è una soluzione ‘attraente’ come un paio di americani stravaganti e una petite pianista giapponese – ma – che cosa c’è che non andrebbe bene?
Potremmo aprire Bruno e io con un po’ di pezzi a due pianoforti, poi il pezzo per violoncello intitolato UNTITLED COMPOSITION FOR CELLO & PIANO – intervallo – e finire con TRIO.
Questo mi permetterebbe di ricevere anche un onorario (con il mio gruppo per me non avanza niente) e cosa molto importante… vivendo a Buffalo è troppo difficile e perdo troppo tempo a organizzare tre musicisti sempre così impegnati. Penso che un gruppo italiano di sicura eccellenza e così simpatico possa essere veramente la soluzione migliore. Spero che tu sia d’accordo.I miei migliori saluti
Morton Feldman
Non so per quale ragione non se ne fece poi niente, non certo per le richieste economiche di Feldman (tanto sulle nostre modeste offerte non c’era mai discussione). Passarono altri due anni, e nel 1983 Feldman propose di venire a Padova in duo con la pianista Aki Takahashi. Sarebbero stati già in Europa, ognuno per suo conto: non si trattava di una tournée, ma di un concerto appositamente organizzato. Il programma definitivo fu concordato per telefono: una prima parte con brevi pezzi per due pianoforti, “poi nella seconda parte Aki suonerà un pezzo nuovo, Triadic Memories”. “Un pezzo solo nella seconda parte?” provai a dire, “Non viene un po’ corto?”. “Ma Triadic Memories dura un’ora e mezza! Sarà una serata molto lunga”. Si trattava in effetti del primo pezzo per pianoforte di durata fuori dell’ordinario (il brano più esteso, fino ad allora, Piano, del 1977 arrivava a venti minuti).
Il concerto terminò alle undici passate e fu memorabile. Anche a Feldman lasciò un buon ricordo, come risulta da un aneddoto che raccontò in un seminario tenuto a Darmstadt l’anno successivo, e che rimane fissato nella trascrizione pubblicata nella raccolta dei suoi scritti:
Ho tenuto un bellissimo concerto a Padova con Aki Takahashi. Abbiamo fatto qualche pezzo dei miei per due pianoforti. E poi, dopo, siamo seduti in un ristorante. E c’è un giovane, un bel tipo, seduto lì, io pensavo che fosse un amico di quelli che ci avevano invitato, invece è uno studente dell’università che si è unito al gruppo. Allora gli chiedo “chi sei?”, e lui mi dice che sta scrivendo un lungo articolo. Sentite questa! Vuole mostrare con misurazioni e diagrammi che il violino è fatto per la mano dell’uomo.
Morton Feldman non tornò più a Padova. Poco prima della sua scomparsa, nel 1987, organizzammo la prima esecuzione italiana di For John Cage, per violino e pianoforte (uno dei lavori di Cage che Feldman preferiva erano le Six melodies per violino e pianoforte), con Paul Zukofsky e Marianne Schroeder. Poi musica oggi ospitò il concerto in memoriam che Yvar Mikhashoff compilò nel 1988 mettendo insieme pezzi, oltre che di Feldman stesso, dei suoi maestri o ispiratori, Scriabin, Riegger, Wolpe; e dei suoi allievi, Vigeland, Marcus, e di Barbara Monk Feldman. Nel 2000 Ulrike Brand e Martin Erdmann hanno eseguito all’Auditorium Pollini la Untitled Composition for Cello and Piano. L’anno successivo Why Patterns? sarebbe stato eseguito dal Laboratorio Novamusica di Venezia insieme a Samuel Beckett:Words and Music.
Fortunatamente è stato conservato su nastro (una cassetta) il primo di questi eventi; forse è anche il più importante, perché documenta un momento cruciale nella vicenda dello stile di Feldman. Come si è detto, Why Patterns? fu eseguito due volte. La ragione della doppia esecuzione si spiega con la concezione stessa del brano. Feldman allora stava sperimentando alcune idee che sarebbero risultate nello stile delle lunghe composizioni caratterizzate da moduli, pattern, tipiche dell’ultimo periodo: Why Patterns? esisteva allora provvisoriamente come insieme delle tre parti strumentali. Non c’era una partitura (salvo che per un breve passaggio conclusivo) e, secondo quanto Feldman spiega, non avrebbe potuto essere altro che una sovrapposizione di parti separate. Il loro coordinamento doveva essere trovato nella performance come arrangiamento polifonico ‘spontaneo’. Dunque ogni esecuzione non poteva non essere diversa dalle altre. Inizialmente incerto se ‘chiuderlo’ in una partitura, Feldman decise poi di pubblicarlo in una forma che rispetta l’intenzione originaria. Why Patterns? risulta così, rispetto alle altre partiture di quel periodo, qualcosa di simile a un prototipo, dove la complessa griglia metrica (il termine “griglia” è impiegato da Feldman stesso) tipica delle ultime opere si trova già definita nel suo fondamentale principio direzionale, ma le sue implicazioni ‘verticali’ dipendono ancora, in primo luogo, dall’articolazione idiomatica di ogni parte strumentale, al punto che il compositore rinuncia a fissarla preventivamente. Un bell’esempio, questo, di quella discussa convergenza della musica di Feldman con quella del primo minimalismo – una convergenza di procedure, non di linguaggio, e che tra l’altro la avvicina a certi aspetti di ‘tradizione orale’ che si ritrovano in molti compositori a partire dalla metà degli anni sessanta per un decennio circa (Stockhausen, Nono, Maderna, Kagel, Cardew, per dirne solo alcuni).
La trascrizione della conversazione di Feldman, che segue, necessita di qualche precisazione. La serata venne registrata con un buon apparecchio a cassette, ma a distanza, e a un livello eccessivamente basso, per cui buona parte delle domande sono quasi inaudibili. Claudio Ambrosini faceva da interprete, traducendo frase per frase, cosicché Feldman accentuò gli aspetti sentenziosi e aforistici del suo eloquio che era, come sempre, erratico e affascinante.
(Veniero Rizzardi)
Conversazione con Morton Feldman.
Padova, Sala dei Giganti, 12 maggio 1979
Il discorso prende le mosse dalla domanda di uno spettatore che crede di essere venuto per ascoltare musiche di Xenakis (in effetti per qualche tempo era stato annunciato un programma misto Feldman-Xenakis).
Xenakis ha scritto un pezzo per il nostro gruppo.
Ti piace Xenakis e sei deluso perché non hai ascoltato musica sua?
(risate in sala)
Xenakis è stato mio ospite a Buffalo. Stava seduto vicino a me durante l’esecuzione di un mio pezzo. Poi usciamo per fumare una sigaretta e lui mi dice: “Sono contento che anche a te piacciano le scale cromatiche”. Ecco il rapporto.
Ma che relazione c’è, veramente, tra la sua musica e quella di Xenakis?
Distanza.
Che importanza ha il timbro dello strumento rispetto alla costruzione del brano?
Il timbro è l’altezza, è molto importante. Il colore, e l’altezza.
Può spiegare come è costruito il pezzo che abbiamo ascoltato?
Mm…
Non è coordinato. Ognuno segue una sua propria metrica. Ed è molto precisa, la metrica di ciascuno. Mm… A volte lavoro con una griglia molto precisa. A volte… come in un giardino, o in un paesaggio, se ho più spazio mi sento più libero.
È tutto rigoroso e disarticolato, allo stesso tempo.
Ho dei problemi nel decidere come pubblicarlo, ossia se lo devo rendere come situazione polifonica in senso stretto – perché è così che funziona – o lasciarlo come è. Lo abbiamo suonato molte molte volte in posti diversi, diverse situazioni – ma viene sempre abbastanza simile.
Il mondo dei colori… Io ho uno stile… Il mondo dei miei colori è coerente… Le tendenze stilistiche stanno nelle mie scelte.
Lei si considera un compositore costruttivo, artigianale, o che altro?
Il mio concetto di composizione, fin dall’inizio – voglio dire, io scrivo musica da molti molti anni – è soggetto a cambiamenti…
Per me la composizione è come una performance – non improvvisazione – ma a me sembra di eseguire un pezzo piuttosto che farlo. Lavoro in modo molto simile a come lavora un pittore. Non ci sono strutture a priori. Ma queste cose sono molto difficili, e lo so che una qualche costruzione è necessaria, lo so.
La mia filosofia compositiva prende degli impegni molto a breve verso un’idea. Mi lascio sempre aperta la possibilità di cambiare idea e non sono… non sono implicato in qualche logica di causa/effetto. Solo i miei studenti lo sono.
Sono orgoglioso di questa posizione.
Ma la mia relazione a Xenakis sarebbe… potrei dirlo anche di Boulez – voglio dire, anch’io, a modo mio, ho a che fare con delle possibilità.
Vorrei sapere qualcosa delle sue esperienze giovanili, qual è la cultura in cui è cresciuto, come è arrivato a questo…
(a parte) Ma vuole la mia vita!
Va bene, ho studiato come tutti voi, ho studiato pianoforte con un’insegnante molto importante, ho suonato Mozart, ho diretto la Prima di Beethoven al liceo… e ho studiato con il primo compositore dodecafonico americano, Wallingford Riegger, e con Stefan Wolpe. Non ho mai studiato con Edgar Varèse, ma da giovane andavo a trovarlo spesso. E nel 1950 incontrai per caso John Cage. E con lui ho avuto un sodalizio stretto in quegli anni. Meno, di recente.
E perché?
Lui mi chiama “estremista poetico”.
È d’accordo?
La mia tragedia è che non sono abbastanza estremista.
Ho una coscienza.
(domanda incomprensibile)
No, penso che i miei primi pezzi fossero, o sembrassero più semplici – più omogenei. E adesso voglio cambiare questa immagine (…) [e voglio] concentrazione.
Giancarlo Cardini: nella sua musica il protagonista è il tempo o quello che sta nel tempo?
Per me, per scrivere la mia musica, c’è una sola cosa che conta, ed è credere nel materiale.
Sono stato colpito una volta da un’osservazione di Giacometti. Diceva che davanti a un piccolo frammento [di scultura] greca… non c’è bisogno dell’intero, c’è già tutto il senso della struttura, tutta.
Scrivere una composizione non è più… lo si può fare… perché se dici che scrivi una composizione, allora hai un’idea a priori di che cosa sia una composizione… è questo non tiene più, per nessuno, Boulez, Xenakis, nessuno… così se ti chiedi che cos’è questa composizione – quasi tutti i compositori se lo chiedono, adesso: è ancora possibile la composizione? Questo è il problema.
Il tempo, non inteso come metro, ma come durata, ha un’importanza strutturale? Il pezzo non potrebbe continuare all’infinito?
No.
Dal momento che sono un estremista poetico io mi sono posto un problema. Due anni fa mi sono posto un problema. Non solo sento che scrivere una composizione può non essere possibile – è che scrivere una composizione breve non è possibile. 25 minuti, 30 minuti: non è possibile. Allora ho deciso che devo arrivare a un’ora. In modo puramente arbitrario. Devo arrivare a un’ora.
Così il mio pezzo successivo è venuto di cinquanta minuti. Ho finito da poco un pezzo per violino e orchestra che dura un’ora e dieci minuti. In un movimento. Senza sezioni. Questi sono i problemi che ho – perché il problema ha a che fare con il mio impegno a concentrami su un determinato particolare – per me è più difficile che fare una composizione.
E in un pezzo come questo il materiale alla fine si dissolve, perché quando si hanno tre strumenti come questi, la loro identità si afferra subito…
Mauro Graziani: Tempo addietro lei scriveva partiture grafiche. Ora mi sembra che scriva in un modo più legato alla tradizione…
Mm… il mondo è grande e non tutte le informazioni circolano… Io ho scritto musica grafica e musica notata tradizionalmente, insieme, nello stesso periodo. La mia musica grafica la consideravo prosa… prosa, la consideravo epica… e la musica notata la consideravo più soggettiva, più personale. Ma non ho più scritto musica grafica [da quando] ha cominciato [ad essere] accademica. Ho perso interesse. Ho perso interesse nella possibilità. Venticinque anni fa. Era troppo compromessa con l’esecuzione. Con l’improvvisazione.
Nuove possibilità di relazioni sonore senza sistema.
(domanda incomprensibile)
Certo che è molto difficile, perché è soltanto un pezzo. I pezzi sono tanti, e diversi.
Ma mi è venuto un grande interesse per i tappeti. E soprattutto per quelli che hanno i bordi molto sviluppati. E i loro moduli (patterns) sono di solito molto meccanici. Ma sono grandi tappeti, bellissimi. Le donne che li tessono cominciano in questo modo meccanico, ma i disegni sono bellissimi. E mi piace la contraddizione.
Veniero Rizzardi: Allora che cosa pensa della meccanicità della musica iterativa?
Penso che il suo contributo più grande sia stato quello di far capire a tutti che erano finiti gli anni Cinquanta ed erano cominciati i Sessanta.
Ma mi piace quando non è troppo Hollywood o troppo pop. Voglio dire, mi piaceva all’inizio.
Qual’è l’importanza dell’esecutore in questa musica? Potrebbe suonarla con chiunque altro?
Non la suonerei con chiunque. Primaditutto è molto difficile. Ci vuole grande controllo. E devi avere una relazione con questa musica. E concentrazione. Io sento che la concentrazione nell’esecuzione deve essere in relazione con la concentrazione di come è stata scritta. E penso che sia molto importante trovare la condizione che provoca questa concentrazione, piuttosto che suonare le note e basta. Se c’è qualcosa che io voglio comunicare, questa è la concentrazione, che nessuno ha. Molto importante per me. È più importante dell’emozione, è più importante della sensazione, è più importante di ciò che voglio o mi aspetto. Per me la vita è questo.
Insegno molto. Molti studenti vengono da me. E falliscono, perché non sanno che cos’è la concentrazione.
(domanda incomprensibile)
No. Vita. Non ho una filosofia.