Qualche sera fa, a Bologna, MEV ha tenuto un concerto per il festival Angelica. Venerdì 3 suonerà a Padova per il Centro d’Arte all’Auditorium Pollini. Sono gli unici due concerti italiani, in realtà europei, di un tour “dei 50 anni” che di fatto non si è materializzato, per varie ragioni che metterebbe tristezza enumerare. D’altra parte Alvin Curran, Frederic Rzewski e Richard Teitelbaum… nessuno di loro è tipo da faticare a cercare concerti in giro, né hanno agenzie che lo facciano per loro conto, ma sono tutti e tre abbastanza entusiasti e appassionati da poterci pensare e lanciare l’idea. Almeno Angelica e il Centro d’Arte hanno risposto.
Scrivo queste righe a mo’ di molto informale ‘introduzione’ al concerto di Padova, a partire da qualche osservazione personale, da ascoltatore/osservatore e in definitiva,’persona informata dei fatti’. Non mi addentro in una descrizione o in un qualcosa che assomigli a una recensione, preferisco concentrarmi su di un solo aspetto del concerto, anzi del suo esito, perché rivela molto del modo in cui si produce e agisce la musica di MEV.
Sono stato colpito, a Bologna, dalle reazioni generalmente negative che ho raccolto a fine concerto, e che si riassumono più o meno in questa opinione: “Alvin Curran ha suonato tutto il tempo, non ha lasciato spazio agli altri, ha rovinato il concerto”. Ora, come sa chi conosce questi musicisti, il metodo di MEV si basa sul presupposto di un’improvvisazione totalmente libera, il che può voler dire molte cose, probabilmente molte di più di quanto un ascoltatore pur affezionato all’improvvisazione sia disposto ad accettare.
Ora, è vero che Alvin ha suonato ‘quantitativamente’ più degli altri. Sembrava in un certo senso più disinvolto, espansivo, musicalmente loquace. I suoi materiali sono anche, di per sé, sovrabbondanti: è un collezionista di suoni, Curran, di paesaggi sonori, di voci, di citazioni. La libreria dei campionamenti che utilizza in concerto è una specie di atlante enciclopedico dei suoi ascolti, dei suoi viaggi, dei suoi incontri, e viene offerta a chi ascolta per il tramite di una tastiera che lui sa percorrere con la tecnica di un pianista virtuoso (anche gli altri lo sono: tenere presente che prima di divenire dei sovversivi sono stati tutti e tre disciplinati compositori, oltre che pianisti di rango, formatisi nelle università della Ivy League). Teitelbaum lavora a partire da materiali simili ma è meno incline alla citazione esplicita e propende per un trattamento più astratto dei suoni. Rzewski, invece, da molti anni ha abbandonato il suo versante elettroacustico e anche in MEV, dove nel 1966 aveva esordito come adepto di David Tudor – il pianista che aveva ‘appeso lo strumento al chiodo’ in favore dei circuiti home made – suona soltanto il pianoforte e interagisce da pianista, per mezzo di suoni temperati ed episodi melodici, con il mondo prevalentemente di rumori che gli si sviluppa intorno.
Torniamo al troppo suonato da Curran. Seduto alla sua tastiera, raramente sembrava sospendere il suo monologo in cui raccontava tutti i suoi viaggi sonori, mentre gli altri in apparenza stavano ad ascoltare, anzi proprio a osservarlo: Rzewski, al centro della scena, spesso se ne stava appoggiato al pianoforte, senza suonare, lo sguardo rivolto dalla parte di Curran, dando l’impressione di attendere che si creasse un varco per intervenire. Tra loro due, questo non l’ho ancora detto, c’era l’ospite, Pauline Oliveros con il suo bandoneon elettronico, l’unica che pareva volere intessere un dialogo con Curran, imitando e rispondendo alle sollecitazioni che venivano da quella parte. All’estremo opposto del fronte visivo stava Teitelbaum che, agendo più sul suo laptop che sulla tastiera ad esso collegata, non lasciava intendere bene che cosa stesse facendo, dal momento che era più difficile capire da quali gesti nascesse il suono. Che, come ho detto, si mimetizzava con quanto arrivava da Curran. Così, anche visivamente tutto pareva sbilanciato dalla parte di quest’ultimo.
Ho chiesto, alla fine, ai più perplessi e infastiditi, se magari lo sarebbero stati altrettanto se non fossero stati influenzati dalla visione di quanto sembrava loro che fosse successo; se avessero insomma soltanto ascoltato. Non ho ricevuto risposte significative: ognuno difendeva la sua impressone e non aveva voglia di farsi provocare; dopotutto l’esperienza di un concerto improvvisato è proprio quella di partecipare a tutto ciò che succede sulla scena, non di ascoltare soltanto. Ma allora, proprio per questo non si può giudicare la validità musicale di un processo del genere, isolandolo da quanto si è percepito ed esperito con tutti i sensi. Per me stesso, la risposta è che, a un ascolto in diretta radio, poniamo, non ci sarebbe stato motivo di alcuna irritazione, dal momento che gli oggetti sonori prodotti da Curran, Oliveros e Teitelbaum sarebbero stati meno facilmente distinguibili ‘al buio’, e che tutt’al più ci si sarebbe chiesto come mai si sentisse poca musica arrivare dal pianoforte. Una registrazione, immagino, sarebbe ancora meglio accettata, in quanto opera fissata, testo acustico cristallizzato fino a divenire feticcio ecc.
Però l’osservazione che proponevo per cercare di calmare gli amici irritati, e che per me invece è decisiva, è questa: che non è possibile giudicare un processo d’improvvisazione collettiva per sua natura (ossia metodo) aperto, e soprattutto non codificato, a partire dalle proprie aspettative: di ascoltatori che desiderano qualcosa di gradevole, oppure qualcosa di relativamente prevedibile (!), che si tratti soltanto di un ipotetico ‘equilibrio’ quantitativo nell’attività dei partecipanti. Tra i musici, ognuno è responsabile di quello che fa tanto quanto di quello che non fa, o ‘dice’. Se prendiamo per buona la similitudine della conversazione, quando un amico su quattro parla troppo, ci sono molti modi di fargli cambiare atteggiamento: dandogli sulla voce, non prenderlo sul serio, provocare una rissa, lasciarlo solo ecc. Tutte azioni che si possono compiere anche musicalmente. Quindi se Curran suonava troppo voleva dire che gli altri non avevano nulla da obiettare o se ce l’avevano, non era poi cosa gran che importante. Dopotutto Curran, Rzewski e Teitelbaum sono amici e suonano insieme da cinquant’anni…
In definitiva credo che la delusione nelle aspettative degli ascoltatori con cui ho parlato nasca da un atteggiamento di ascolto (dell’improvvisazione) basato sugli usi del jazz o della free impro da esso derivata, in cui all’interno del ‘collettivo’ non è politicamente corretto che qualcuno prevalga, e poi alla peggio un assolo non si nega a nessuno: comportamenti – più che linguaggi – soggetti a un codice non scritto e ampiamente condiviso e applicato. Ricordo un concerto di AMM in trio in cui suonò praticamente soltanto Keith Rowe. Eddie Prévost e John Tilbury fecero giusto presenza, sonoramente intendo. Evenienze del genere fanno parte di un’improvvisazione davvero integrale.
Però avrei qualche altra chiave d’interpretazione. Estendendo ancora un po’ la similitudine di prima.
MEV venerdì scorso è salito sul palco del S. Leonardo dopo le 21, poco dopo essersi alzati dalla tavola di una simpatica cena. Prima, tra le 17.30 e le 19 c’era stata un’autentica conversazione-presentazione. La ‘conducevo’ io e, conoscendo i miei ospiti, qualcosa di quanto sarebbe successo un po’ lo avevo previsto. Per esempio che Frederic avrebbe cercato di smontare polemicamente qualunque cosa avessi detto per introdurre il discorso. E così è stato, dopo di che Alvin si è diffuso nel racconto dei tempi eroici della Roma anni ‘60, interrotto dai sarcasmi e dalle provocazioni di Frederic, che peraltro poi ha cambiato un po’ registro e ha detto diverse cose molto informative oltre che brillanti. C’è stato poi un battibecco tra i due, che hanno cominciato ad animarsi scivolando tra loro dall’italiano – che parlano benissimo – all’inglese, con gran divertimento del pubblico. Teitelbaum ha chiesto la parola per un intervento, facendosi largo un po’ a fatica tra gli altri due. Il tutto ha dato l’evidente l’impressione di una grande sincerità, di una grande passione e anche di una totale indifferenza a procedere in modo ordinato. Credo che la vera chiave per capire il concerto sia stata questa: primaditutto la forma stessa di quella conversazione più che il suo contenuto, perché i due momenti erano perfettamente omogenei: nei ruoli, atteggiamenti, temperamenti dei tre personaggi; e poi, molto probabilmente, il concerto è stato una prosecuzione della conversazione con altri mezzi.
Naturalmente l’inserzione di un quarto elemento, Pauline Oliveros, avrà sortito un effetto negli equilibri tra i tre, ma non si può veramente dire quale. Sono curioso di riascoltarli a Padova tra poco, in una situazione del tutto differente: uno spazio, come l’auditorium, decisamente meno risonante del teatrino di S.Leonardo, un impianto di diffusione del suono a 8 canali e la spazializzazione estemporanea di Alvise Vidolin, quarto elemento necessariamente destinato, pur da una posizione distante e discreta, a interagire con MEV. Sono piuttosto sicuro che il concerto si svolgerà in modo completamente diverso da Bologna. Ho detto ‘piuttosto’.
(Veniero Rizzardi)