Il Jazz Festival di Saalfelden (edizione 33!) continua a realizzare un paradosso felice: convincere istituzioni e aziende ad investire nella musica creativa. La cittadina austriaca diviene a fine agosto il ritrovo per artisti americani ed europei che praticano la musica libera da etichette, condizionamenti, costrizioni nazional-popolari. Il tutto ospitato in una cornice comoda e funzionale (il Congress Centre), corredata da un locale con auditorium e bar (il Nexus, per le esibizioni del primo pomeriggio), oltre agli stages in piazza e nei dintorni. Più di venti gli sponsor che accettano di promuovere la libera improvvisazione e le musiche di ricerca. Impensabile qui da noi.
Questo potrebbe far pensare a un concetto che sembra elementare e invece non lo è: anche le musiche indipendenti sono facilmente assimilabili se solo le istituzioni le sostengono e le mostrano, dando loro possibilità “democratiche”.
In realtà pare che l’apprezzamento di queste musiche da parte di vaste platee dipenda da una disponibilità all’ascolto che ha radici lontane e complesse, cresciute e sviluppate soprattutto nei paesi anglosassoni e di lingua tedesca, nonché nell’ultimo ventennio in quelli iberici.
Non in Italia, dove il classicismo e un’opposizione culturale quanto meno pallida e confusa hanno dissuaso le persone dall’accettare un’educazione musicale elastica, non pregiudiziale.
Ma questo è un dibattito che si può fare a margine di queste brevi note.
In ogni caso, a Saalfelden i 22 concerti in programma (non contando quelli gratuiti) sono stati presi d’assalto da un pubblico aperto ad ogni vibrazione.
Questa edizione è stata ottima nell’insieme e ha evidenziato un momento interessante vissuto dal jazz di ricerca, caratterizzato dalla passione che molti autori hanno riscoperto per la scrittura di trame sonore più o meno tradizionali.
La vulgata comune prevede l’accettazione del fatto che il jazz sia più che altro improvvisazione e che la scrittura sia spesso un fragile canovaccio di partenza, non decisiva per i risultati artistici originali. Ora, noi sappiamo sia per esperienza storica e d’ascolto, sia per recenti approfondimenti critici (anche italiani, vedi i recenti studi di Zenni e Sessa), che in realtà il jazz è anche musica di compositori e che la notazione scritta (sia quella occidentale comune che quella grafico-simbolica della nuova musica) spesso è sostanza e si pone in posizione dialettica con la memoria vissuta che è il terreno di coltura dell’improvvisazione, sia essa parziale o radicale.
Detto questo, sorprende un poco che alcuni musicisti americani di oggi, abbastanza giovani e punte di diamante del post-free, fino a poche stagioni fa sperimentatori a tutto campo, colgano ora nelle strutture predeterminate e nello spartito denso di note e mini-suite un sostrato irrinunciabile della loro opera.
Due esempi su tutti, e per chi scrive tra i più brillanti: il quintetto della chitarrista Mary Halvorson e la band These Arches del batterista Ches Smith.
Questi due gruppi, che contano strumentisti di grande virtuosismo e di sottile intelligenza, leggono musica avidamente in scena. L’organico di Smith è alle prese con una continua variazione tematica, spezza la progressione strumentale con testi e sotto-testi, muta perennemente la pulsazione metrica dei pezzi, fino a chiudere in maniera tronca, quasi esausto di tanta foga e tante rincorse. La straordinaria Halvorson preferisce ricami più cantabili e note più “tenute”, ma guai comunque a perdersi nei concertati obbligati: si rischia di affogare. Queste musiche ricchissime hanno forse un problema: quello dei temi. Comporre temi è arte difficile, spesso artigianato eccelso. Se si ritiene di star lontani dai grandi maestri (Monk, Coleman, Mingus) per non soffrire di troppe influenze, è arduo trovare una freschezza tematica all’altezza. Apprezzando assai l’insieme delle musiche postjazzistiche di oggi, a volte ci si chiede se sia necessaria tutta questa scrittura o se essa invece non stia prevaricando un poco la libertà esecutiva.
Una bella riuscita, in questo dilemma, è parsa quella del trio SIDE A, composto da Ken Vandermark al baritono e al clarinetto, Havard Wiik al piano e Chad Taylor alla batteria. Molto “cool” nelle sonorità, debitori delle geometrie di Jimmy Giuffre, i tre sanno dosare perfettamente gli ingredienti di jazz e non-jazz, pagina scritta ed eloquio spontaneo, sfruttando magnificamente il linguaggio percussivo di sintesi di Chad Taylor, batterista che anno dopo anno si candida come erede di grandi caposcuola.
Un buon successo ha ottenuto il nostro Giovanni Guidi alla testa di un bel gruppo con Dan Kinzelman al tenore, Shane Endsley alla tromba, Francesco Ponticelli al basso e Gerald Cleaver alla batteria. Pur ancora indeciso tra le affascinanti sequenze di poetica astrazione e un melodismo sentimentale à la Charlie Haden, Guidi ha doti sicure, che gli permetteranno di superare quel tanto di eclettismo e di scegliere veramente una lingua definita.
In questo quadro espressivo, il quintetto di Gerry Hemingway (con Eskelin, Noriega, Driscoll e McManus) ha messo a punto un repertorio originalissimo e raffinato, forse non ancora rodato a dovere in palcoscenico: sarà pronto per la nostra stagione il 3 novembre, al Lux di Padova, per un ulteriore appuntamento di “Ostinati!”. Chi invece ha mostrato solidità, senso poetico, rigore e ispirazione senza pause è stato il duo Tim Berne (sax alto)-Bruno Chevillon (contrabbasso),in un concerto del primo pomeriggio al Nexus di quelli indimenticabili.
Un universo a parte, invece, la Experimental Band di Muhal Richard Abrams. Una formazione che non esiste, che si materializza ogni ventennio con quelli che ci stanno (stavolta Braxton, per esempio, non ci è stato), con Muhal che ricorda le utopie chicagoane, quando nei primi anni 60, con l’AACM ancora da fondare, egli riuniva improvvisatori anche di diversa estrazione per tentare di rovesciare le gerarchie del far musica.
Ricordo che a Verona, giusto vent’anni fa, alla presenza di un gruppo più largo, rimasi basito per un happening che non regalava spettacolo a buon mercato, ma costruiva tempi esecutivi ascetici, quasi provocatori, senza alcuna finalità compositiva. A ripensarci però, è proprio quello che Abrams abbozzava a Chicago mezzo secolo fa e che in seguito sfociò in una nuova scuola e molti altri corollari stilistici. L’idea era quella di destrutturare la concezione orchestrale (o di gruppo allargato) del jazz classico ma anche della musica classica tout court, polverizzando le funzioni tematiche, ritmiche, contrappuntistiche, cercando invece di cristallizzare timbri vaganti nello spazio e nel tempo, in una sorta di astrattismo in cui il collettivo ripensava se stesso, sperimentando appunto nuove forme di contatto, relazione, riconoscimento.
E’ chiaro che un’audacia simile prevede successi ma anche lunghe fasi di stasi narrative o meditazioni senza meta. Questo era il fascino dell’esperienza, prendere o lasciare. Ora, nel 2012, esibizioni come questa sono chiaramente illustrative, sintesi-riassunto di una lunga storia che poi ha preso strade assai differenti. Ma che emozione al cospetto dei graffiti sonori di Wadada Leo Smith, dei sussurri insinuanti di Henry Threadgill (il più visionario ma anche il meno utilizzato a dire il vero), delle esplosioni laviche di Roscoe Mitchell, delle liquidità raziocinanti di George Lewis!
E il solo fatto di avere una front-line di fiati così era davvero unico. Ai pianoforti Muhal e Amina Myers, al basso Leonard Jones, alle percussioni Reggie Nicholson e Thurman Barker.
Sempre lontani da strutture consolidate, BB&C, ovvero Tim Berne (altosax), Jim Black (batteria) e Nels Cline (chitarra, elettronica), lavorano invece sulla saturazione sonora, su indeterminate improvvisazioni ruvide di rock con venature punk di effetto imponente. La partita è giocata da chitarre e batteria a mille, con cuciture e riff stranianti del sax, per un set di incandescente bellezza.
Rock più moderato, con canzoni niente male dal gruppo della violinista Jenny Scheinman – con ancora Cline e Black – e un simpatico siparietto klez-punk offerto da The Rhinoceros (che incidono su Tzadik).
Una lezione di jazz senza aggettivi invece dal quartetto di Henri Texier, tra ruminature modali, temi quasi folk, e omaggi a Ornette e Paul Motian.
Il finale è stato per Pharoah Sanders e gli Undergound di Rob Mazurek, che forgiano una musica tanto semplice nella grammatica quanto toccante negli esiti melodici e ritmici. Alcuni pezzi del recente “Tres Cabeas Loucuras” sono ampliati dalla presenza di Chad Taylor e Matthew Lux ed arricchiti da un sontuoso Sanders al tenore, molto più intenso rispetto ad un’apparizione milanese di inizio d’anno. Ma ricordiamo che il merito delle creazioni e della direzione musicale va dato a Mazurek, ancora in stato di grazia come nelle recenti stagioni.