Le relazioni che un compositore colto intrattiene con i materiali d’uso, con la musica popolare in genere, sono sempre state oggetto di discussione anche aspra. Da Mahler e Bartok in poi, fino ad arrivare al jazz d’arte che apre le sue sofisticate traiettorie al rock elettrico, la questione è spesso liquidata con ironica insofferenza. In questo senso il caso di Miles Davis insegna: solo di recente la complessa materia sonora fissata da decine di tracce, dal 1967 al 1991, è stata analizzata con dovizia di serietà e approfondimento d’ascolto. Se poi al centro di questo rapporto si colloca un autore scevro da compromessi, legato a filo doppio a quella sorta di ascetismo sonoro che deriva dalla AACM di Chicago come Wadada Leo Smith, allora i dubbi si moltiplicano. In realtà Smith, fin dalla metà degli anni 80, in corrispondenza con la conversione al Rastafarianesimo, inserisce la musica elettrica e i ritmi binari all’interno del suo sistema compositivo. All’inizio in modo incerto, mutuando schemi dalla musica giamaicana; in seguito invece convertendo il nuovo approccio con un linguaggio maturo, come una scoperta lessicale che arricchisce una tavolozza di indubitabile rigore artistico. Wadada Leo Smith è un compositore nitido, un architetto sonoro che fa interagire diverse forme ma che nulla lascia al caso, un deciso sostenitore della dialettica formale, dove silenzio e suono creano elastici di corrente emotiva e la rivelazione prevale sulla formula e il pattern. Dunque l’intarsio molecolare che prevede saturazioni e immediati vuoti desertici, respiri ritmici che invitano alla meditazione e talvolta provocano smarrimenti, sfrutta sempre più il colorismo della massa sonica elettrica, come accade nel recente progetto Organic, ascoltato di recente a “Jazz Em Agosto”, nel magnifico Anfiteatro Ar Livre della Fondazione Gulbenkian a Lisbona.
L’organico fa tremare i polsi ad un appassionato di jazz, anche d’avanguardia: oltre alla tromba del leader, spiccano infatti tre chitarre elettriche, contrabbasso e basso elettrico, violoncello elettrificato, pianoforte, piano Fender e batteria. E’ la formazione che si ascolta in molti momenti dell’ultimo cd dell’artista “Heart’s Reflections” (Cuneiform). Rispetto all’incisione in studio, però, i materiali sono più aperti alla ridefinizione, più dilatati da dialoghi e soli estemporanei ad alta temperatura.
Il pensiero di uno Smith tutto proteso verso un funk estremo, ossessivo, si stempera presto durante la performance. E’ chiaro che senza Miles Davis tutto questo non avrebbe preso corpo. D’altronde già il progetto con Henry Kaiser, Yo! Miles, chiariva il legame estetico che Wadada ha sviluppato con Davis. Ma gli archi compositivi di Organic sono tutt’altra cosa. Là dove Miles era interessato ad un tribalismo funky che polverizzava ogni elemento armonico in una concezione tutta orizzontale del flusso sonoro, Smith invece rimarca una peculiarità del contrasto, conservando ad esempio le singole voci strumentali nella loro piena individualità e contrapponendo alla poetica del riff (pur presente) un insieme di oasi acustiche-astratte ben funzionali ad una ricca varietà d’accenti. Così, è azzardato ma riuscito il tentativo di far convivere la gamma timbrica delle tre chitarre, con le frasi liquide, raffinate di Brandon Ross, quelle acerbe e un po’ r&b del nipote Lamar Smith e quelle spesso volutamente grezze, da heavy rock di strada, proposte da Michael Gregory. La direzione musicale di Wadada è come un’antenna sensibile, che capta segnali simultanei e dà loro una forma, li immette plasticamente in un’orchestrazione.
Accensioni e rallentamenti. Il pianoforte di Angelica Sanchez, difficile da udire nel mix d’insieme, è chiamato d’improvviso ad un interludio secco, di rigore tecnico sopraffino. Riprende poi, beffardo, il groove, sospinto dal basso elettrico di Skuli Sverisson e dalle poliritmie di Pheeroan AkLaff, a sua volta sfumato da sequenze di puro lirismo di Wadada alla tromba, perfetto punto di riferimento per tutta la band. Ancora, sospensioni ritmiche e attacchi frementi, con un solo sbalorditivo di John Lindberg al contrabbasso elettrificato e pedale wha-wha e interventi decontestualizzati del violoncello di Okkyung Lee. Un polittico sonoro impressionante, che svanisce nella notte lisbonese solo dopo ripetuti e ammiccanti ad libitum ritmici, quasi a dire ‘potremmo non fermarci mai..’.
A Lisbona anche l’unica data europea di Cecil Taylor, che brucia i suoi 82 con felina lucidità.
Come spesso nelle ultime stagioni, il suo solo-piano si distende ora con minore velocità e concitazione, preferendo l’analisi di motivi piccoli, enunciati e rovesciati, poi espansi con infinita sapienza ritmica. I blocchi percussivi abbracciano dunque un intimismo quasi debussyano, ma non c’è tempo per alcuna memorizzazione: i polsi granitici di Cecil sono già altrove e la sua danza delle dita ci racconta ancora qualcosa di mai udito. Da notare che due sere dopo, durante l’esibizione di Leo Smith, Taylor era in platea ad ascoltare. Non è cosa usuale.
Il regista Christopher Felver è venuto a presentare il suo film su Taylor, “Cecil Taylor : All The Notes”, molto stimolante e vivo. Cecil ripreso a casa sua mentre balla ascoltando gli standard del jazz, in macchina mentre attraversa Manhattan, quasi mai sul palco. Rimangono impresse alcune cose. Il suo ricordo di Mal Waldron, che andava ad ascoltare al Blue Note quando suonava in trio con Reggie Workman e Ed Blackwell. E un paragone, enigmatico: la differenza tra Milford Graves e Sunny Murray è come quella tra Kirk Lightsey e John Hicks. Chi la capisce è pregato di suggerire..
Un altro bel documentario è quello di Vipal Monga dedicato a Butch Morris, “Black February: A Film About Butch Morris”. Tradizionale nel montaggio che alterna interviste e frammenti esecutivi, è importante però per le dichiarazioni di Butch, che spiega le sue “conductions” in modo convincente, insistendo sulla responsabilità personale nel mettere a segno qualcosa di valido, “io vi dò strutture, voi datemi indietro contenuti, è l’unico modo per forgiare il dialogo, per far scoccare la scintilla..” Un’esplicazione affascinante di una pratica democratica in musica. C’è sempre chi comanda, ma in modo limitato, disposto a recepire i concetti altrui e a praticare la trasformazione..
L’anima radicale che ha connotato il festival lisbonese 2011 si è dispiegata ancora sia nella sede principale che nel nuovo Teatro do Bairro. Qui è andato in scena il set più sorprendente del mazzo, cioè quello di Fire!, trio scandinavo composto dal veterano Mats Gustafsson, sassofoni e tastiere, e dai più giovani Johann Berthling (basso elettrico) e Andreas Werlin (batteria). Formazione simile a quella di The Thing – che abbiamo ascoltato a Padova qualche mese fa – ma assai differente negli esiti espressivi. Pur basandosi sulla capacità decostruttiva di Gustafsson, che in The Thing assume comunque connotati jazzistici, Fire! riesce ad eliminare ogni substrato linguistico che possa fungere da codice antecedente, immergendosi in un tribalismo da anno zero che può, a seconda delle sensibilità, generare allergia o scatenare pulsioni visionarie. Dal silenzio si costruisce, con spirali sempre più pressanti, un caos struggente che pare orchestrale e invece è opera per lo più dei ruggiti polmonari di Gustafsson. Il quale elimina ogni nozione armonica, ma anche in pratica il fraseggio, per aggredire il suono puro e il timbro, sia del baritono che del tenore, mostrando un controllo tecnico disumano e una passione divorante. Qualche problema può derivare dall’estensione della performance. Non sempre è necessario proseguire oltre un’ora, per esporre una tesi musicale.
Sconcertante anche il maestro Brötzmann, stavolta con il quartetto Hairy Bones, che a 70 anni continua a predicare il rigore del free urlante senza pause, con una concentrazione e un risultato ammirevoli. In realtà qualche mezza tinta c’è stata, dovuta alla presenza del trombettista elettronico giapponese Toshinori Kondo – vecchia conoscenza della free music -, autore di sequenze, per così dire, lunari-meditative, che toglievano un po’ di enfasi al quartetto. Ma il piglio di combattimento si capiva subito, nel momento in cui Brötzmann, appena messo piede in pedana, faceva roteare il corpo verso il microfono e imbeccava il bassista Massimo Pupillo con uno sguardo inequivocabile: via! subito al top! E Pupillo, bisogna notarlo, si rivela il perno del gruppo, le sue note lunghe o martellanti dettano i tempi e gli spazi di un eloquio comunque declamatorio, sottolineato dai beat indiavolati della batteria di Paal Nilssen-Love, che non fa sconti a nessuno.
Nilssen-Love si ritrovava anche in un altro ensemble, che fa incrociare il suo duo col sassofonista americano Ken Vandermark e le due chitarre degli Ex, Terry ex e Andy Moor.
Mentre queste macinano instancabili riff frammentari e sostanzialmente privi di senso (molto cageani, forse..) sassofoni e clarini costruiscono invece archi espressivi fini e seduttivi dialogando con percussioni metalliche ma anche raffinate.
Per ascoltare musiche più pensate, più scritte, ecco il quintetto della sassofonista Ingrid Laubrock, interprete talentuosa della scena brooklyniana. I suoi temi non sono forse memorabili e un po’ ingabbiano le virtù dei compagni di viaggio, ma la capacità di direzione e la varietà metrica e ritmica è solida e fa di questo Anti-House un gruppo da seguire in futuro. Accanto alla leader, le percussioni magistrali di Tom Rainey, il pianoforte di una squisita Kris Davis, il contrabbasso di John Hebert e soprattutto la genialità chitarristica di Mary Halvorson.