Vi segnaliamo questa bella intervista di Enrico Bettinello per il Giornale della Musica, in cui, in occasione della rassegna Centrodarte70 con cui festeggiamo i 70 anni di attività, Veniero Rizzardi e Stefano Merighi raccontano storia e filosofia del Centro d’Arte.
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Nuova stagione, la settantesima, per il Centro d’Arte di Padova: lo raccontano i curatori Veniero Rizzardi e Stefano Merighi
Si apre venerdì 16, con un attesissimo concerto in solitaria (unica data italiana) del sassofonista svedese Mats Gustafsson nell’affascinante Sala dei Giganti del Liviano, la stagione autunnale del Centro d’Arte di Padova, una delle rassegne di riferimento oggi per il jazz più avventuroso e le più intriganti avventure della musica legata alla tradizione compositiva.
Una stagione che completa l’ottima prima parte di programma e che è certamente il modo migliore per festeggiare i 70 anni del Centro, di festeggiarli “sul campo”, guardando con giusta soddisfazione alla prestigiosa storia, ma non dimenticando che l’omaggio migliore si può fare solo continuando a reinventarsi e a condividere con il pubblico musica di grande qualità.
Ci è sembrata l’occasione giusta per incontrare Veniero Rizzardi e Stefano Merighi, che curano la programmazione del Centro e ripercorrere con loro storia e temi di questa grande avventura.
Il Centro d’Arte degli Studenti dell’Università di Padova compie 70 anni. Come è nata questa realtà e come si è sviluppata ed è cambiata in questi sette decenni?
Veniero Rizzardi: «Il Centro d’Arte è nato nel 1945-46 in un paesaggio socioculturale profondamente diverso da quello di oggi. All’epoca l’impulso era venuto dall’Università di Padova, che aveva stimolato un gruppo di studenti ad aggregarsi verso un lavoro di diffusione di esperienze artistiche e musicali aggiornate al nuovo clima democratico. Erano gli anni della ricostruzione postbellica, del bisogno di allontanarsi velocemente da quanto il fascismo aveva imposto o indotto nella vita culturale, per cui si voleva stimolare gli studenti, soprattutto fuori dell’Università, a recuperare vent’anni di chiusura nazionalistica, aprirsi alle esperienze internazionali, eccetera».
«Stiamo parlando dell’Università degli anni Quaranta-Cinquanta, per intenderci quella destinata a formare i ceti dirigenti della nuova Repubblica. La fondazione delle associazioni culturali universitarie era parte di un chiaro disegno politico-culturale proveniente dall’alto. Associazioni simili alla nostra sorgevano un po’ dappertutto: realtà musicali prestigiose come la GOG a Genova o l’Unione Musicale di Torino, per esempio, erano nate dalle stesse premesse del Centro d’Arte ma dopo alcuni decenni si sono naturalmente trasformate in società concertistiche di natura privata, distaccate dal progetto educativo da cui erano sorte. A Padova è andata diversamente e, per una serie di particolarità locali che sarebbe lungo descrivere, il Centro d’Arte pur trasformandosi profondamente è rimasto legato all’Università, cominciando a proporsi come un vero e proprio centro di ricerca esterno, un’attitudine che oggi mi pare si sia intensificata. In buona parte questo è avvenuto anche perché negli anni c’è stata una catena di cooptazioni, entro il gruppo dirigente, di curatori attenti al contemporaneo e in generale molto poco conformisti. Questo è avvenuto già a partire dagli anni Cinquanta, con figure come Gastone Belotti, Quirino Principe, e poi via via Franco Fayenz, Daniela Goldin – all’epoca tutti studenti. Poi negli anni Settanta il gruppo si è allargato a giovani musicisti ed esperti esterni all’Università, come Filippo Juvarra. Tenendo d’occhio il pubblico studentesco e giovanile, la programmazione ha sempre avuto questa costante di inseguire le nuove tendenze – sia che si trattasse di composizione, di stile interpretativo, di allargamento a diversi generi – a stretto contatto con le idee dei musicisti e spesso in collaborazione con loro».