Il testo che segue è l’originale italiano della prefazione che ho scritto a questo libro, una raccolta di vari testi di Nic Collins pubblicata l’anno scorso in Francia. Anche se non sono presi in esame tutti gli aspetti del lavoro di Collins, e fatti salvi i riferimenti specifici (nelle ultime righe) al contenuto del libro, penso che possa servire abbastanza bene come introduzione generale al suo pensiero e alla sua attività.
… è una delle migliori definizioni che si potrebbero dare di Nic Collins, e mi arriva da lui mentre stiamo discutendo di come sia difficile accomodare la sua pratica di artista dentro una disciplina, in un’’arte’ ben definita, per quanto i limiti dei concetti di musica o di arte si siano resi via via sempre più elastici nel corso del tempo – a proposito: da quando?
A meno di revisioni della storia (sempre possibili), la genealogia della confusione partirebbe da Duchamp; poi, per quel che riguarda la musica, siamo tutti d’accordo che è stato Cage a mettere in discussione in modo radicale il concetto di composizione come messa in forma del mondo dei suoni, eccetera. Prima c’era stato il futurismo: per Russolo l’arte dei rumori dovrebbe essere del tutto diversa e lontana da quella musicale e quindi fondarsi su materiali e regole costruttive proprie. Tuttavia Cage ha sempre insistito sulla natura musicale delle sue operazioni (un momento rivelatore accade quando Cage, ospite di un popolare programma TV del 1960 corregge con «music» l’anchorman che lo presenta come campione di «experimental sound»). E dopo di lui c’è una generazione di musicisti, che hanno pensato e fatto musiche molto diverse da Cage, ma senza fare a meno di alcuni dei suoi principi fondamentali: che i suoni non sono le note, e che un progetto musicale coerente può essere qualcosa di molto diverso da una partitura, ossia l’innesco (concettuale, fisico, tecnico) di un processo autonomo che andrà a creare e/o organizzare in modo più o meno complesso i suoni, con o senza l’intervento di un esecutore. Uno di questi è Alvin Lucier, un nome che spesso ritorna nei racconti di Collins. Eppure – come ha osservato lui stesso una volta, in conversazione –, nemmeno nelle loro espressioni più radicali, Cage o Lucier ci fanno dimenticare la loro provenienza da quella tradizione musicale che in apparenza hanno rovesciato: ce lo rivela spesso un sostanziale, intrinseco rispetto della forma. Un altro è David Tudor che però, essendo ‘nato’ esecutore piuttosto che compositore, nel momento in cui ha compiuto la sua personale sovversione – abbandonare il pianoforte in favore della costruzione artigianale e sperimentale di circuiti – si è dimostrato più incline a identificare la creazione con la performance ed è stato in questo senso anche più avventuroso e radicale. L’ambiguo confine tra musica sperimentale e quella che oggi si chiama sound art – due orientamenti che all’epoca non erano ancora generi – probabilmente si forma con lui.
Il passo decisivo fuori dalla tradizione che si diceva, però, forse è proprio quello compiuto da Nic Collins – anche se spesso l’apparenza sonora dei suoi lavori non lo pone lontano dal suo maestro Lucier (sto pensando a Pea Soup, per esempio). Ma non è stato veramente un atto volontario: ormai la pedagogia di Lucier era basata sulla sua personale conversione a un’idea del comporre fondata sul suono come fatto fisico, oggettivo, e sul luogo (qualunque luogo) in cui lo si produce e lo si ascolta. Più in generale si è trattato di una necessità generazionale, tipica ed esclusiva di chi è nato nel decennio 1950-60, e che si è formato nel clima culturale, e politico, dei vent’anni successivi. Clima, naturalmente, vissuto in un luogo non qualunque. A New York in quegli anni non avevi bisogno di andare a cercare le ultime esperienze delle avanguardie: semplicemente ti venivano addosso, non le potevi ignorare, anche perché si andavano legando a una cultura popolare che era intrisa di novità e utopia. Mi piace sempre sentire da Nic il racconto di quando, a sedici-diciassette anni, si trovava a passare tutti i giorni davanti alla palazzina di Miles Davis nell’Upper West Side e un bel giorno cominciò a sentire la sua tromba amplificata e filtrata da un pedale uaua.
Quei teenagers, una decina di anni dopo – strumenti forse inconsapevoli di una lungimirante politica di gentrification – avrebbero colonizzato i quartieri degradati di Downtown Manhattan, formando una comunità ricchissima e variegata dove in pochi chilometri quadrati avrebbero convissuto, ritrovandosi ogni sera negli stessi club, punksters, free improvisors, graffitisti, minimalisti, jazzisti, inventori della scena disco, per non parlare della nuova danza, del teatro, della performance art che formavano questa scena indefinibilmente vasta e varia, che aveva ‘casa’ davvero on the corner. In Europa tutto questo è arrivato spesso già suddiviso in generi, impacchettato e indirizzato a pubblici diversi, e questo non aiuta a capire la genesi comune, intrecciata di esperienze che, a seconda delle inclinazioni di ognuno, hanno preso poi strade in apparenza divergenti. Nic e Madonna non sono lontani quanto sembrano.
In realtà la geografia culturale di Collins è molto più sfaccettata. Penso agli scambi continui con la comunità musicale e tecnologica della Bay Area dove l’artigianato si esercitava nella costruzione di sistemi informatico-musicali davvero personali, e che ha favorito una molto antidogmatica ibridazione – molto caratteristica di Collins – di esperimenti condotti attraverso i mondi analogico e digitale, in un momento in cui questi apparivano in opposizione. Poi un lungo soggiorno europeo, quasi una specie di sereno esilio da una scena intensa sì, ma in cui la sopravvivenza dell’artista indipendente è sempre stata molto problematica, verso (quella che un tempo era) un’area protetta, e dove era possibile essere accolti come giovani maestri di qualcosa di nuovo che non era ancora definibile. È anche vero che lo Steim di Amsterdam, di cui Collins è stato direttore, negli anni 1980-90 era un angolo di USA in Europa, dove convivevano compositori, informatici, artigiani elettroacustici.
Scrivere di musica, per l’artista che la fa, solitamente vuol dire produrre una qualche giustificazione del proprio lavoro, che in qualche caso può avere l’ambizione di una teoria. Difficilmente a un’opera chiusa e finita corrisponde un testo aperto e problematico. Infatti non è questo il caso. Quando scrive, Nic Collins racconta soprattutto esperienze e pone delle domande a cui non intende dare risposte. E lo fa sempre con quel meraviglioso umorismo ricco di pensiero, e di informazione, che riversa nei suoi entusiasmanti workshop. Sono convinto che Collins proponga un modello di intervento politico attraverso una pratica artistica che rifugge, proprio soggettivamente, da definizioni nette e in cui, soprattutto, chi assiste deve proprio collaborare con l’artista per trovare il senso dell’opera, o del processo a cui assiste.
(Veniero Rizzardi)