Più che un ‘articolo’, questa è una nota personale per ricordare Mario Bertoncini, che il 19 gennaio ha preso assenza, come dice Giuliano Scabia. Contavo di rivederlo a Milano, lo scorso novembre; avrebbe presenziato e forse, suonato, al concerto dei tre di ZAUM, che avevano preparato una delle possibili versioni del suo Tune, una partitura ‘aperta’ per piatti sospesi o percussioni metalliche. Avrei voluto vederlo anche per poter riuscire finalmente a materializzare una sua prossima presenza nelle nostre stagioni padovane, di cui si era parlato a più riprese senza mai arrivarci.
Invece, due giorni prima, un malore improvviso aveva annunciato la malattia che nel giro di un paio di mesi se lo sarebbe preso. 86 anni, non li dimostrava per niente. Bertoncini era uno di quei vecchi che non sembrano vecchi, un po’ per vivacità conservata, un po’ perché hanno sempre fatto quelle cose visionarie che mantengono sempre giovani. Non gli piaceva che il suo nome venisse associato esclusivamente – come quasi sempre succedeva – al Gruppo d’improvvisazione di Nuova Consonanza, perché per molti anni dopo la fine di quella esperienza aveva sviluppato la sua musica e le sue creazioni più personali, macchine in cui si erano incarnati insieme i talenti del grandissimo musicista e la sua versatilità di homo faber: così letteralmente, perché il suo studio era più simile alla bottega di un fabbro, dove prendevano forma le sue arpe eolie e vari altri oggetti risonanti.
La sua distanza da un passato di musicista ‘regolare’ era ormai enorme, ma lui teneva a che quel passato rimanesse, ironicamente, bene in vista sullo sfondo delle sue passioni del momento. Perché il pianoforte, di cui era stato, ancora prima di Nuova Consonanza, un vero virtuoso, era ancora presente nel suo lavoro, anche se diviso, smembrato e trasfigurato in altri strumenti di invenzione: una sua tipica performance si divideva tra arpe di sua costruzione azionate da getti di aria compressa; e uno strumento in cui la tastiera e la meccanica di un pianoforte percuotevano, anziché le corde, la superficie di otto gong giapponesi sospesi orizzontalmente ai bracci di un carosello rotante, in pratica uno strumento che portava alle estreme conseguenze il pianoforte preparato di Cage. Questo avevo visto e ascoltato per la prima volta in una serata a Ferrara nel 1982, che era stata organizzata nell’ambito delle iniziative di Sonorità Prospettiche co-curate da Franco e Roberto Masotti, Roberto Taroni e da me (su questa esperienza vedi anche qui).
Fu proprio in quella occasione che lo incontrai per la prima volta, mentre scaricava il suo armamentario dalla Range Rover che aveva guidato partendo da Berlino. Liutaio, compositore, performer, roadie in una sola persona: era chiaro che gli piaceva fare tutto da sé.
Con lui si entrava subito in amicizia e mi dispiace di non averlo potuto incontrare più spesso, gli argomenti di conversazione con un personaggio del genere non si esaurivano mai. Era sempre umoristico e understated, come lo sono spesso personaggi di immenso talento ed esperienza, felicemente creativi. E lui lo era al punto di non curarsi per niente di disperdere le diverse carriere che aveva avviato e si era lasciato dietro, come quella di ‘normale’ compositore d’avanguardia: aveva studiato con Petrassi, aveva preso i suoi premi, ma poi la sua scrittura si era fatta più evanescente, aleatoria, sperimentale, ancora prima che si sciogliesse nell’improvvisazione. Ma anche la carriera di concertista: parlava con nostalgia di un 1. Concerto di Bartók sotto la direzione di Maderna, nientemeno. Mentre sto spulciando le annate del Radiocorriere per cercarne una traccia negli archivi RAI, che cosa ti trovo invece: i suoi Sei pezzi per orchestra, poi vari concerti da solo e con orchestra (la Konzertmusik op. 49 di Hindemith per esempio), un duo con Severino Gazzelloni e un altro con Michel Portal (con repertorio da Federico il Grande a Lutoslawski), ma leggo anche di sue presentazioni di concerti altrui, e poi di una Agnese di Hohenstaufen, opera tedesca di Spontini… nella versione ritmica italiana di Bertoncini. Lavori di questo genere ne ho trovati altri, sul Piccolo spazzacamino di Britten, sul Lindberghflug di Brecht-Weill…
Si moltiplicava anche in ‘orizzontale’: le sue molte mani sinistre scrivevano anche di teatro-teatro, di Settecento, oppure componevano dialoghi platonici e sonetti in romanesco. Dove lo trovi, oggi, un musicista con queste abilità e curiosità, e che non rientri nel cliché dell’umanista nostalgico in orrore del nuovo? E così Bertoncini sfugge anche benissimo all’altro cliché, quello dell’artista d’avanguardia votato alla negazione e alla purificazione futuristica di tutto ciò che è passato. Eppure è stato un innovatore radicale. A prescindere da quanto le concezioni e le teorie di Franco Evangelisti abbiano plasmato la fisionomia e il setting del Gruppo di Nuova Consonanza, a me pare che il risultato concreto, sonoro, la ‘tinta’ caratteristica dell’insieme siano da ricondurre al contributo dei materiali sonori scoperti e messi in azione da Bertoncini, anche quando – come succedeva di regola, nel Gruppo – il performer rinunciava a suonare lo strumento in cui era (stato) più versato, nel suo caso il pianoforte (qui un prezioso documentario d’epoca).
È stata un’esperienza molto singolare la sua, e lascia sul campo il problema di come preservarla e trasmetterla. Rimangono i documenti audio e video (pochi, questi), d’accordo; e poi le partiture, forse troppo aperte e indeterminate per essere riproposte come le interpretava lui; e anche i suoi strumenti, le sue macchine ma, anche queste, troppo dipendenti dalla sua presenza e azione di performer.
(Intanto cominciate a esplorate un po’ qui, il suo sito mi pare aggiornato. E poi, ancora, una presentazione estesa, abbastanza recente, con vari esempi. Per il resto cercate su youtube, anche se non c’è tanto, e soprattutto: evitate molto accuratamente le poesie di un tale che porta il suo stesso nome).
(Veniero Rizzardi)