Il 29 aprile 1994 il Centro d’Arte ospitava la prima assoluta in Europa del nuovo progetto Masada di John Zorn, qui nella prima configurazione strumentale con Marc Ribot alla chitarra elettrica, John Medeski all’hammond e Billy Martin alla batteria.
29 aprile, Teatro Pio X, Padova: John Zorn & Masada.
L’ultimo progetto musicale di John Zorn si chiama Masada, dal nome di un monte della Giudea dove nell’antichità un gruppo di ebrei difese accanitamente la propria autonomia dalla minaccia romana, prima di soccombere. E la «visibilità» di una musica ebraica contemporanea sembra essere uno degli scopi dell’impegno attuale del sassofonista, come già aveva testimoniato l’album «Kristallnacht».
Masada è un quartetto dall’anomala formazione: con Zorn al contralto, suonano John Medesky all’organo Hammond, Billy Martin alla batteria e Marc Ribot alla chitarra.
Questi impasti timbrici creano un sound d’insieme acidulo e corrosivo, al servizio di una musica fortemente ritmata, dove il jazz riemerge spesso dai flutti del caos, sebbene contaminato, come è ovvio per Zorn.
I due lunghi set dell’applauditissimo concerto di Padova hanno presentato composizioni e improvvisazioni di notevole varietà, lontane però dai frenetici montaggi cui Zorn spesso indulge. Ciascun brano, dunque, possedeva una sua linearità compiuta, con piena libertà espressiva per i solisti. Il gruppo ha iniziato con una estesa esecuzione
ricca di swing, spezzata di tanto in tanto da quei nevrotici «punto e a capo» che Zorn inserisce per spiazzare un ascolto troppo rilassato. John Medesky sfrutta l’Hammond in tutte le possibilità, creando masse d’urto sonoro dirompenti e sostenendo l’impalcatura complessiva del gruppo.
Dopo il primo sfogo, la musica si è sviluppata con accenti più distesi, persino lirici: Bith Aneth è un bolero sbilenco, dove la chitarra di Ribot e il contralto di Zorn prendono assoli di estrema semplicità, di gran pregio formale. E più volte torna l’atmosfera iberico-moresca, con un modalismo lieve che sfiora il Davis di Flamenco Sketches e il Mingus di «Tijuana Moods».
Anche in veste di solista, Zorn ha suonato a lungo, in maniera sempre ispirata, con tutte le sfaccettature espressive che gli si conoscono (suoni «frullati», sovracuti in glissando molto violenti, repentini capovolgimenti in «pianissimo», mantenendo comunque un aplomb ironico che di recente sembrava aver perduto. Alcune sequenze richiamavano sia il «canto» di Ornette che quello di Albert Ayler: da una parte le linee di fuga dopo un tema breve e secco, dall’altra il germogliare di suoni accorati, salmodianti. E poi i capitoli danzanti ed esotici, legati forse al klezmer (ma non ne siamo sicuri), comunque a un incedere melodico mediorientale e a ritmi balcanici (Kanah, Kilayim). Musica in certi frangenti anche superficiale ed epidermica; una superficialità però sana e coinvolgente, che mette da parte per un momento quell’iperintellettualismo a tutti i costi che può alla lunga tediare.
Come Zorn, anche Ribot ci è parso al suo meglio; Billy Martin è batterista poderoso e funzionale, ma la vera sorpresa è Medesky. Pubblico in sala numerosissimo, di eterogenea composizione, alla fine in fila con i compact di Zorn da far firmare dall’autore, disponibile e rilassato come non lo si era mai visto.
Stefano Merighi
Musica Jazz – Numero di giugno 1994, pagg: 14-16