André Hodeir
Jazz et jazz (1952)

Lennie Tristano
Descent into the Maelstrom (1953)

Terry Riley
Music for the Gift (1962)

Bernard Parmegiani
Jazzex (1966)

Bill Evans
Bemsha Swing (1963)

Miles Davis/Teo Macero
Pharaoh’s Dance (1969-71)

[nel foyer]
Robert Ashley
Perfect Lives (Private Parts): The Bar (1980)

Lasciando da parte per un momento la traccia narrativa della composizione acusmatica e della sua genealogia radiofonica, questa serata è centrata sulla fonografia, sulla ‘scrittura’ della musica su supporto, una condizione che è da più di un secolo la seconda natura della musica come testo. I repertori musicali preesistenti alla nascita del disco, come la musica scritta della tradizione europea con la sua prassi esecutiva, hanno all’inizio dovuto adattarsi alle limitazioni del disco (durata, definizione sonora, ‘innaturalità’ della performance condizionata dall’ambiente di studio ecc.) ma, mentre con l’affinarsi delle tecniche di registrazione-riproduzione gradualmente quelle limitazioni venivano meno, si facevano avanti nuove opportunità che però allontanavano ancora di più l’esito fonografico di un testo musicale dalla sua performance dal vivo, per mezzo di montaggi, registrazione multitraccia, stereofonia, riverbero ecc.

Il quadretto a tinte pastello dell’ascoltatore anni Sessanta sprofondato in poltrona davanti alle casse del suo sistema hi-fi è convenzionalmente associato a un’idea impropria di ‘alta fedelta’: immaginando di teletrasportarsi realisticamente in una sala da concerto l’ascoltatore in realtà sta infatti assistendo a una performance immaginaria, alla ricostruzione idealizzata di una realtà musicale virtuale che modificherà presto le abitudini e la natura dell’ascolto, fino a condizionare la stessa musica dal vivo. Basti pensare all’ideale di perfezione esecutiva che l’editing ha introdotto nel disco e che ha spostato verso l’alto l’asticella delle prestazioni richieste a un solista in concerto.

Da questo punto di vista il jazz ha avuto una sorte simile: nato praticamente insieme al disco, più che adattarsi, ci è cresciuto insieme al punto che ne ha preso subito le forme. Cosa sappiamo veramente della musica che si suonava dal vivo nei club e nelle sale da ballo nel 1930? Sui dischi ascoltiamo tutt’altro, e quello che ci sembra improvvisato sono quasi sempre brevi parti memorizzate o scritte. Come nell’altra musica, supporti più capienti e l’uso del nastro magnetico cambiano tutto attorno al 1950, ma a maggior ragione quello che si ascolta dal vivo e su disco sono due storie che non coincidono, e la manipolazione del nastro comincia a offrire possibilità creative (non solo correttive, come nel caso della musica scritta) che muovono dal terreno della post-produzione per invadere il campo della composizione tout court.

La musique concrète nasce nel 1948 con i quattro «studi sul rumore» di Pierre Schaeffer, diffusi dalla radio francese a Parigi, con grande sensazione. Schaeffer aveva teorizzato una musica composta direttamente su supporto (inizialmente disco e poco dopo, nastro magnetico) a partire da suoni, rumori e anche musiche preesistenti. Soltanto quattro anni dopo il giovane André Hodeir, compositore, arrangiatore, bandleader e musicologo, realizza Jazz et jazz, che è in assoluto la prima composizione mai concepita per strumento dal vivo e nastro magnetico, appena pochi mesi prima della Musica su due dimensioni di Bruno Maderna. Un pianoforte (qui è Martial Solal) deve improvvisare su un giro di blues sostenuto da una traccia registrata di basso e batteria, a cui si aggiunge un’ulteriore traccia: sono i suoni di una big band immaginaria fatta di strumenti (tromba, pianoforte preparato) processati e manipolati, con tanto di break di batteria in reverse.

In Descent into the Maelstrom per la verità c’è poco o niente di jazz. Lennie Tristano aveva sperimentato precocemente, fin dal 1951, sovraincisioni e variazioni di velocità usando le caratteristiche armoniche e ritmiche del bebop, ma qui le abbandona in favore di un gioco impressionistico ispirato alla figura del vortice del racconto di Poe. Sembrerebbe, in particolare, che la sovrapposizione canonica degli arpeggi voglia rendere la descrizione stupefatta, nelle parole del sopravvissuto, di come i diversi oggetti inghiottiti dal gorgo sembrassero ruotare a differenti velocità e profondità. Sono almeno cinque i processi musicali stratificati in questo visionario brano registrato nel 1953 che all’epoca Tristano non ritenne di pubblicare e di cui non era rimasta che un’unica copia, probabilmente un acetato. Il brano ha avuto un’edizione soltanto nel 1979.

Nel 1962 Terry Riley è un pianista virtuoso e compositore di musica atonale, ma è ancora del tutto sconosciuto quando sbarca a Parigi, dove trascorrerà un paio d’anni guadagnandosi da vivere come pianista di club e di varietà per i militari USA di stanza in Francia. Coinvolto in un progetto di teatro sperimentale da parte di un altro espatriato, il giovane drammaturgo californiano Ken Dewey, realizza un lavoro pionieristico, anche questo rimasto a lungo nel cassetto – il che suggerisce qualcosa a proposito del mutamento di status a cui vanno incontro lavori che il loro autori inizialmente consideravano soltanto degli esperimenti. Benché fosse al corrente degli sviluppi della musica concreta, Riley non ha in quel momento alcun contatto con i musicisti di quella scuola, tuttavia, grazie all’idea estemporanea di un tecnico della radio francese, inventa un processo di trattamento del nastro magnetico consistente nel farlo scorrere attraverso due magnetofoni posti a conveniente distanza: uno per registrare, l’altro per riprodurre e reinviare al primo, ricorsivamente, lo stesso segnale. Il processo, che Riley chiamerà «accumulatore di ritardo» viene applicato per la prima volta alle improvvisazioni del gruppo parigino di Chet Baker, ricavandone le musiche di scena per lo spettacolo. Il risultato è un processo ripetitivo e ricorsivo che è all’origine dei suoi lavori più famosi, In C sopra tutti, e in definitiva di tutta la musica minimale a seguire. «Mi interessava comporre con il jazz, ma volevo evitare la scrittura third stream e usare invece un linguaggio modale per fare qualcosa di ipnotico e psichedelico».
La probabile formazione che ha registrato Music for the Gift è composta da Chet Baker, tromba; Luis Fuentes, trombone; Luigi Trussardi, contrabbasso e Giorgio Solano, batteria.

Esponente della seconda generazione ‘concreta’ anche Bernard Parmegiani ha cercato il jazz come terreno d’incontro tra performance (improvvisata) e composizione su supporto. JazzEx nasceva, appena qualche anno dopo la Music for the Gift di Riley, da premesse operative simili, ma a Parmegiani interessava una più stretta collaborazione con i musicisti: il compositore raccoglieva materiale improvvisato – in questo caso in un linguaggio libero e non idiomatico – per elaborarlo, ricomporlo e riproporlo allo stesso gruppo che avrebbe dovuto reagire al nastro nel corso della performance dal vivo. La composizione consegnata al disco non è però la registrazione di un evento del genere ma, propriamente una composizione concreta che riordina formalmente il materiale materiale raccolto e manipolato. La ‘performance immaginaria’ è operata da un quartetto formato da Jean Louis Chautemps, sax, Bernard Vitet, tromba, Gilbert Rovère, contrabbasso e Charles Saudrais, batteria.

Le intenzioni di Bill Evans nel produrre Conversations with Myself erano ‘semplicemente’ di realizzare un’improvvisazione a due o a tre da parte dello stesso musicista. L’esperimento ebbe fortuna ed Evans registrò Further Conversations with Myself nel 1967. Nei due album la stereofonia è impiegata per conferire anche una dimensione spaziale a questo dialogo, che viene in questo caso sviluppato su tre pianoforti – a destra, al centro, a sinistra del fronte sonoro – a partire da Bemsha Swing di Thelonious Monk.

Miles Davis, per finire, si ascolta qui in uno degli exploit più clamorosi del jazz fonografico. Comparso nel 1970 sul doppio album Bitches Brew, Pharaoh’s Dance è il frutto di una completa ricomposizione a partire da una serie di frammenti registrati dallo studio group di Miles, che aveva riunito una vera e propria orchestra di 13 musicisti – tre fiati, tre tastiere, due bassi, una chitarra e quattro percussionisti – per registrare materiale in funzione di una nuova produzione, di cui non si sapeva in anticipo il risultato. Ormai da qualche anno, d’accordo con il produttore Teo Macero, Miles non registrava brani interi ma frammenti più o meno estesi suscettibili di essere assemblati successivamente. I turni di registrazione in quell’occasione furono tre, di tre ore ciascuno. L’album finito, un’ora e un quarto di musica, fu realizzato a partire da nove ore di studio, ma molte di più di postproduzione. Pharaoh’s Dance in origine erano quattro pagine scritte da Joe Zawinul, che nelle intenzioni del compositore dovevano dare a origine a una forma molto elaborata. Le difficoltà di lettura e l’impossibilità di dedicare tempo a provarla nelle poche ore a disposizione risultarono in una serie slegata di episodi improvvisati che furono poi magistralmente assemblati dal produttore Teo Macero a formare una composizione ‘a posteriori’, nuova, diversa, altrettanto se non più articolata dell’originale. Di fatto, tutte le parti scritte (ed effettivamente eseguite) furono eliminate, rimanendone soltanto gli sviluppi estemporanei che furono rimontati secondo una successione d’invenzione, nemmeno cronologica. Il (raro) ascolto proposto da RADIA è un successivo mix realizzato da Macero nel 1971 per un LP quadrifonico, un formato che ebbe vita brevissima e che diede origine, all’epoca, a un effimero repertorio di varianti ‘psichedeliche’ delle maggiori produzioni pop, e anche jazz.
Con Miles Davis, tromba, Wayne Shorter, sax soprano, Bennie Maupin, clarinetto basso, Chick Corea, Joe Zawinul, Larry Young, Fender Rhodes, John McLaughlin, chitarra, David Holland, contrabbasso, Harvey Brooks, basso elettrico, Jack DeJohnette, Lenny White, batterie, Don Alias e Jumma Santos percussioni.

(V.R.)

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Un progetto del Centro d’Arte degli Studenti dell’Università di Padova
In collaborazione con SaMPL – Sound and Music Processing Lab del Conservatorio di Musica “C. Pollini” di Padova