Luigi Nono
Omaggio a Emilio Vedova (1960)
Horacio Vaggione
NODAL (1997)
Jonathan Harvey
Mortuos Plango, VIvos Voco (1980)
Trevor Wishart
Vox 5 (1986)
Walter Ruttmann
Weekend (1930)
John Cage
Fontana Mix (1958)
(in foyer)
Robert Ashley
Automatic Writing (1979)
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Francesco Ganis
Matteo Polato
regia del suono
Centro d’Arte e SaMPL del Conservatorio Pollini presentano RADIA, una serie di sei appuntamenti (con aperitivo), da giugno a dicembre 2018, nel sistema multicanale dell’Auditorium Pollini. Un festival dedicato alle diverse forme di arte acustica più evocative e immaginifiche: dalla musica acusmatica al radiodramma, dalla soundscape composition al documentario sonoro.
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Luigi Nono – Omaggio a Emilio Vedova (1960)
Omaggio a Vedova è il primo incontro di Luigi Nono con la musica elettronica. Composto allo Studio di Fonologia della RAI di Milano (fondato da Berio e Maderna) nel 1960, è un esempio lampante della dimensione artigianale, materiale ed anche istintiva che è tipica di quella stagione della musica elettronica. Il brano, composto interamente con suoni di sintesi analogica, si concretizza solo dopo una serie di tentativi, esperimenti, “fallimenti” e ripensamenti che portano Nono ad allontanarsi progressivamente da una composizione fortemente progettuale e preconfigurata verso una sperimentazione spontanea e creativa, in cui la dimensione dell’ascolto permette di lasciarsi ispirare dal suono stesso, nello stesso momento in cui viene creato, facendosi guidare nella composizione del brano. In questo senso, quindi, la dedica al pittore e amico Emilio Vedova non è tanto da considerarsi rispetto a una qualche corrispondenza visiva o pittorica ma proprio nel modo di operare del pittore, la sua fisicità e istintività, rendendo il suono una materia plasmabile, gestuale, in movimento: come dice Nono stesso, una sorta di “action sounding” che avviene nello spazio, liberamente.
Horacio Vaggione – NODAL (1997)
Il rapporto metaforico tra la composizione elettronica e la pittura è un tema che ritorna frequentemente, e in questo senso si può ritrovare anche in Nodal del compositore argentino Horacio Vaggione. Sono passati quasi quarant’anni dall’esperienza di Nono allo studio di Fonologia, la tecnologia è cambiata radicalmente: non più studio analogico, manipolazione su pareti di oscillatori, modulatori e filtri e taglia/incolla manuale di nastri magnetici, ma la programmazione informatica con le sue enormi capacità di automazione ed espansione. Meno fisicità, meno contatto, ma più velocità di elaborazione, quantità di operazioni possibili.
Vaggione è seminale per il suo uso della sintesi granulare, che consiste nel frammentare il suono in porzioni di tempo infinitesimali: microsuoni di natura concreta ma scomposti fino a renderli irriconoscibili, diventando puro “colore”. L’elaborazione digitale permette qui di rendere il suono materiale grezzo che il compositore ricompone in modo quasi scultoreo, in profondità: dai coni degli altoparlanti il suono si sviluppa in una prospettiva infinita, costruendo lo spazio acustico tra diversi livelli di rapporto tra primo piano e sfondo.
Jonathan Harvey – Mortuos Plango, VIvos Voco (1980)
L’esplorazione del suono nella sua dimensione più microscopica, l’analisi di come le sue componenti elementari si muovono nel tempo, che diventa principio generatore della stessa forma musicale, è uno degli aspetti fondamentali della corrente compositiva francese dello spettralismo, di cui Mortuos Plango, Vivos Voco è uno dei capolavori.Qui il compositore parte dallo studio di due suoni, la campana della cattedrale di Winchester e la voce di suo figlio (al tempo corista nella stessa chiesa). Anche in questo caso ne esplora lo spazio interno più profondo, scrutandone gli elementi più “curiosamente sorprendenti e inquietanti”. Immerge le mani all’interno del suono, ne estrae le armoniche costitutive e le plasma l’una con l’altra, stirandole, comprimendole, trasformandole. La voce e la campana metallica si confondono tra loro. La spazializzazione in otto canali avvolge l’ascoltatore, che si ritrova egli stesso all’interno della campana, mentre la voce bianca incorporea vaga nello spazio come uno spirito che infesta lo spazio acustico.
Trevor Wishart – Vox 5 (1986)
Come ogni esploratore ha i suoi luoghi prediletti, così il compositore Trevor Wishartsi dedica principalmente agli sconfinati territori della vocalità. In questo senso, Vox 5 è un altro pezzo imprescindibile. Come abbiamo visto nel brano precedente, l’estrazione delle componenti interne del suono registrato vengono plasmate in modo da allontanarsi progressivamente dal suono originale, verso zone intermedie e liminali. Un suono di partenza viene continuamente trasformato in altro: l’elemento generatore è sempre la voce (posta al centro) che si sviluppa, trasforma, di volta in volta in versi di animali, rumori naturali, scenari ambientali, suoni atmosferici.
L’ispirazione è nel mito indiano di Shiva, che con la sua voce dà nome alle cose, creandole e distruggendole. È anche un pensiero su una forma primordiale di linguaggio: il dare nome con l’onomatopea, la forza creatrice del nominare per analogia sonora.
Wishart usa tecniche di Phase Vocoder e Morphing Spettrale, permettendo di passare gradualmente da un suono all’altro, creando un’ambiguità interpretativa che diventa simbolica. Il pezzo mette in scena una vorticosa narrazione dell’origine del mondo, costantemente cangiante di trasformazioni, creazioni e distruzioni.
Walter Ruttmann – Weekend (1930)
Da un lato suono astratto, suono in quanto suono, dall’altro suono rappresentativo, suono che rimanda ad altro, alla sua origine, o all’immaginario. Tra questi due poli si muove il pensiero sulla musica acusmatica già fin dai suoi albori, dai primi esperimenti di musique concrète di Pierre Schaeffer. Ma prima ancora della nascita dell’arte acusmatica, il regista Walter Ruttmann applicava le tecniche del montaggio cinematografico per creare Weekend, un “film cieco”, come lo definiva. È uno dei primi, o forse il primo, esperimento disound artdella storia. Usando la macchina da presa, filma varie situazioni cittadine di un weekend di Berlino, ma ne utilizza solo la traccia audio impressa sulla pellicola. Assembla poi le varie parti montando la pellicola con le tecniche del montaggio cinematografico, “fotografando lo spazio tramite il suono”. L’opera oscilla tra il documentario sonoro, con momenti descrittivi, rappresentativi, narrativi, e l’uso delle stesse registrazioni come materiale puramente sonoro, montato in modo da portarne in primo piano gli aspetti più ritmici e intrinsecamente musicali.
John Cage – Fontana Mix (1958)
Un aspetto artigianale, materiale, lega tutti i pezzi ascoltati finora, in diverse modalità, con diverse prospettive. Con John Cage, come accade spesso, le scelte compositive vengono portate alle loro estreme e più imprevedibili conseguenze.
Chiudiamo un cerchio, torniamo allo Studio di Fonologia della RAI di Milano, dove Cage ha sviluppato Fontana Mix. Il montaggio dei frammenti sonori qui non è più relegato al momento della composizione del brano e poi fissato per sempre. Al contrario, il pezzo nasce con una “partitura” fatta di una serie di fogli e lucidi con stampate varie linee, forme, curve e punti che, una volta sovrapposti l’uno sull’altro producono delle textures dalle quali l’esecutore può estrarre le coordinate per altezze, dinamiche, durate e tipologie di materiali sonori da utilizzare. La composizione è quindi aleatoria, diversa e nuova ad ogni esecuzione, frutto di un’ispirazione spontanea e istantanea in cui la dimensione visiva della partitura dialoga creativamente con quella sonora del risultato finale.
Robert Ashley – Automatic Writing (1979)
Ascoltiamo infine un’altra composizione emblematica, Automatic Writing, del compositore Robert Ashley, attivo all’interno della fervente scena sperimentale americana dagli anni sessanta. Siamo di fronte a un altro caso, tra i più particolari e bizzarri, di musica fondata sugli aspetti più artigianali ed istintivi della composizione. Se nei brani precedenti abbiamo ascoltato diversi tipi di lavoro sul suono, questa volta la composizione non avviene attraverso un lavoro orientato verso l’esterno. Al contrario, qui si tratta di utilizzare il corpo stesso del compositore come fonte dei materiali sonori, che vengono provocati in modo non cosciente. Ashley era affetto da sindrome di Tourette, una malattia che provoca tic vocali incontrollabili. E sono proprio queste azioni, che l’uomo compie inconsciamente, ad essere il materiale principale registrato ed elaborato per questo pezzo. Ashley lo considerava una sorta di “opera”, in cui la voce tourettica è uno dei personaggi che, insieme a una voce sussurrata in francese, i suoni di un organo elettrico e di un Moog, mettono in scena una musica notturna, straniante e psichedelica.
(Matteo Polato)
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Un progetto del Centro d’Arte degli Studenti dell’Università di Padova
In collaborazione con SaMPL – Sound and Music Processing Lab del Conservatorio di Musica “C. Pollini” di Padova